Uomini di cenere

In un immaginario ducato europeo, nel tempo sospeso e raggelato in cui imperversano gli uomini delle Bande Nere, un gruppo di amici ebrei si pone il problema della propria futura sopravvivenza. Uno di loro allora propone di fare “la Tontina”, una pratica che prende il nome da Luigi Tonti, banchiere napoletano del XVII secolo. È un’idea assai semplice: tutti i partecipanti pagano una quota per accendere un fondo comune. Chi sopravvive riscuoterà il premio, con gli interessi nel frattempo accumulati. Nell’uragano di fuoco che distrugge l’Europa durante la Seconda guerra mondiale, il “club della Tontina” si disperde e ognuno va incontro al proprio destino. Sessant’anni dopo arrivano negli Stati Uniti un imbalsamatore e il suo assistente: accompagnano un loro cliente defunto in Italia. Ma la bara e il cadavere scompaiono nel nulla. I due devono ritrovare il contenitore e il contenuto e chiedono aiuto a un detective privato, che al primo colpo d’occhio non fa una grande impressione. Ma il detective Kramer si rivelerà indispensabile e guiderà i due in un viaggio picaresco tra sopravvissuti alla Shoah e cimiteri, sulle tracce di un segreto che affonda le sue radici nel passato. Solo all’ultima pagina scopriremo, con un colpo di scena, chi è il vero vincitore della Tontina, e quanto tragica e beffarda possa essere la Storia.

Ricette di famiglia

Tutto comincia con un taccuino, 182 fogli a quadretti più alcuni sparsi, dove una calligrafia un po’ infantile, da maestra, ha annotato le ricette del repertorio di famiglia. Mamma le ha raccolte da parenti e amiche, alcune le ha copiate dal “Talismano della felicità”: in gran parte però arrivano da nonna Armida, e dunque da un Ottocento che in questo modo riesce ancora a trasmettere il suo bagaglio di storia e di sapori. Gli ultimi assaggi di queste “Ricette di famiglia” arrivano invece dai sushi bar e dagli happy hour che vanno di moda oggi, dove si assaggia ma non si mangia. I pranzi e gli spuntini sono quelli di una famiglia che, generazione dopo generazione, bizzarria dopo bizzarria, attraversa più di un secolo di storia d’Italia, dalle dimore di campagna dove si riunivano le grandi famiglie patriarcali ai bilocali metropolitani che ospitano le nostre inquietudini. “Ricette di famiglia” è anche una girandola di personaggi: la mamma che si lamenta perché fa tutto lei ma impedisce a chiunque di avvicinarsi ai fornelli; il babbo dall’olfatto perfetto e che perciò non vuole che si tagli la sfoglia con il coltello, perché altrimenti “sa di metallo”; il professor Valentini, afflitto da un figlio anoressico e da una figlia bulimica; Eugenio di Parigi, cugino della “nonna cattiva”; l’amico Giap che sposa solo donne giapponesi; il Malinverni che vuole “globalizzare” le tigelle aprendo un fast food in India.

Provaci ancora Radetzky

“Ma ho un bel cercare di ricostruire quello che mi è capitato per amore di Carla e in odio a quel meschino di Radetzky, ristabilendo nella giusta sequenza i dati oggettivi per cui le nostre storie hanno finito per intrecciarsi all’oscena parodia di una storia più grande”. Un protagonista cinico e divertentissimo che odia “Il Piccolo Principe” sempre presente in sogno, si confronta con l’ossessione per il Feldmarescillo Radetzky, le Cinque Giornate di Milano e l’amata Carla, salvatrice di levrieri. Ruotano attorno a lui personaggi originalissimi: il bulldog albino chiamato Krapfen, l’amico ricco Zippo, che può permettersi tutto proprio per la sua ricchezza, due nonni all’ospizio che, smemorati, pensano di essere amanti. Tutta la storia ha come scopo il tentativo di finire un videogame in cui si combattono battaglie virtuali contro gli Austriaci e prima o poi si farà una rappresentazione equestre con Vincenzo Monti e Radetzky stesso come protagonisti. Durante la vivace trama s’inseriscono personaggi indimenticabili dell’immaginario collettivo tra i quali Mamma Ebe e Don Verzé e alla fine tutto il cinismo del protagonista dovrà vedersela con il tentativo di conquistare Carla. Un romanzo in equilibrio tra “La versione di Barney” di Mordecai Richler e l’ironia di Woody Allen.

L’uovo di Colombo

Si può ridere davanti alla fine del mondo? In attesa del Giudizio Universale, che ci darà la risposta definitiva, Barbolini ci mette alla prova con questo romanzo in cui il finimondo scoppia in una città di provincia, mai nominata eppure riconoscibile, per colpa d’un assessore troppo intraprendente e d’una torre campanaria, patrimonio dell’Unesco, proditoriamente tappezzata con le gigantografie di Pavarotti ed Enzo Ferrari in lamina argentata. Da qui si snoda una ridda vorticosa di vicende futili ed esilaranti che coinvolge una variegata combriccola di personaggi: dal Grande Scrittore in Incognito, in fuga da se stesso e dal suo doppio, alla categoriale Direttrice di un’importante Fondazione con la effe maiuscola; dal nero padre Tiger, autentico frate guerriero, alla bella e sensuale Clelia, vittima d’incontrollabili bollori erotici, fino al gigantesco Efrem, ultimo addestratore dei battaglieri colombi “triganini”. Ma tanti altri sono i bizzarri personaggi che sgomitano spudoratamente per superarsi nella staffetta narrativa di questo “romanzo eroicomico” dal risoluto impianto corale. Attraverso rivoli e snodi ricchi di humour e di umori, non esclusi quelli stercorari, la trama s’arricchisce di corpose vicende laterali, destinate tutte a confluire nella gran baraonda finale, quando un memorabile castigo sceso dal cielo rimetterà le cose a posto. L’uovo di colombo è un romanzo insolito e sorprendente dove Guareschi strizza l’occhio a Gadda, mentre la statua marmorea di Alessandro Tassoni, l’autore della Secchia rapita, annuisce bonaria. La comicità iconoclasta di Barbolini investe il mondo intero, eppure non cede mai a un nichilismo amaro, a una messa alla berlina sprezzante: da ogni personaggio, in queste pagine, si irradia un’energia vitale autentica, un’insopprimibile aspirazione alla felicità capace di suscitare una profonda, umanissima simpatia.

Vampiri Conosciuti di Persona

In principio era il buio. Buio e freddo. Non il freddo che fa rabbrividire ma basta un fuoco di bivacco a riscaldare; un freddo proprio da ghiacciaio, che iberna fossili e tracce di vite passate in un’immemore vita minerale, in attesa di un impossibile risveglio. Che fosse impossibile lo sapevo bene. Eppure mi stavo risvegliando. Con il mio arco in legno di tasso e le frecce acuminate che tenevo nella faretra sarei di nuovo andato a caccia di cervi e di stambecchi; con queste mie mani diacce come la morte avrei ancora raccolto bacche tra le forre e i dirupi del Similaun. E nelle lunghe veglie invernali accanto ai fuochi, quando i lupi ululano di lontano dalle foreste grigie, per generazioni e generazioni gli anziani avrebbero narrato la storia del cacciatore che era riuscito a tornare dal regno dei morti.

L’orrore è arrivato subito dopo. Sollevando con immensa fatica il braccio, ho esplorato a tentoni il buio circostante. La mia mano ancora semiassiderata, pesante come il piombo, ha incontrato un ostacolo. Lentamente, per via delle stilettate dolorose che il sangue riprendendo a circolare infliggeva alle mie dita intorpidite, ho esplorato lo spazio che mi circondava mentre dentro di me cresceva l’angoscia. Il mio corpo giaceva in un involucro vellutato eppure duro come il legno. Qualcosa di funereo come una gondola. Qualcosa che non somigliava a una gondola ma a una bara. Anzi: era proprio una bara. La verità si è fatta strada nella mia mente come un bisturi che incide la carne senza anestesia, causandomi un dolore sovrumano, dal quale il mio corpo appena risorto dai ghiacci del Similaun non ha saputo trovare riparo. 

  Paralizzato dal terrore, ho pregato di morire di nuovo, ma i miei occhi restavano spalancati. Il respiro si è fatto affannoso per un’improvvisa fame d’aria.  Sepolto vivo: così sarei finito, dopo l’inutile combattimento di Armageddon contro le schiere immonde delle rane balzate fuori dalle bocche spergiure del dragone, della bestia e del falso profeta. Nemmeno nei miei incubi peggiori mi sarei mai sognato una fine così terribile, prigioniero fino all’ultimo respiro d’un legno che non galleggia ma sprofonda, sotterrandoti con sé nel buio eterno. Con sgomento, con allucinata rassegnazione, ho dovuto ammettere che il Dottor Morte aveva vinto.

  Tutto è incominciato in una torpida domenica di dicembre.

  Un improvviso leggero capogiro, il primo della mia vita. Impossibile respirare, come se l’aria fosse di piombo. E i miei polmoni, le branchie d’un pesce in agonia. L’ululato dell’ambulanza. «Come si chiama, perdìo, come si chiama?» urla sgarbata l’infermiera volontaria. Sto agonizzando e lei, invece di salvarmi, pensa già a rubricarmi all’anagrafe dei morti. Finalmente riesco a svenire. Mi risveglio in un letto d’ospedale, coperto di tubi e incapace di parlare (…)

  La stanza in cui mi trovo ha la smorta tonalità bianco-giallastra d’un uovo covato in batteria, andato a male da un pezzo. Sulla parete di fronte un orologio tondo, con le cifre in numeri romani, segna sempre l’una e 25. Non so neppure se sia notte o giorno. Angoscia improvvisa di essere già crepato: forse le lancette si sono fermate all’ora esatta della mia morte e per me –solo per me– il tempo ha smesso di scorrere. Questo ospedale dei dannati, questo letto di chiodi e di ghiaccio in cui giaccio da più di tremila anni, sarebbero dunque l’aldilà. Ma se davvero sono morto, morto del tutto, perché continuo a pensare?

L’Ombelico del Mondo

Esiste oppure no il provincialismo? E la “modenesità” è una categoria topografica, psicografica o dello spirito? Scrivere di luoghi, persone e memorie, pescate dall’autore come un orso a caccia di salmoni, appostato cioè in quel preciso punto geografico dove risalgono la corrente e non altrove, in questo caso un ombelico, è da considerarsi una diminutio solo perché la vanvera fa rima con Modena?

Solo perché la città della Potta è a un tempo centrica ed eccentrica, prima astronave e poi pianeta attorno al quale si fa strada l’orbita del ragionamento? 

Come disse Pier Paolo Pasolini “in provincia di Modena un uomo colto è con un piede nella melma piccolo borghese e con l’altro nei regni della morte”. Questa la risposta del letterato.   

La risposta del lettore è affidata ai sentimenti che affiorano a tratti, una pagina via l’altra, insieme a dotte esegesi, battute sagaci, squisite leccornie, argute speculazioni, brillanti frequentazioni, personaggi e fantasmi che, come quello dell’opera, proprio non possono fare a meno di fare la loro comparsa.

Forse, a sua insaputa, questo libro è anche un testo teatrale, dove un coro greco di vivi, morti, vampiri e gufi impagliati dice la sua. Con tutte quelle soubrettes che ancora entrano ed escono dall’Hotel Canalgrande sembra di andare a braccetto col passato, sotto un portico dove si possono incontrare Antonio Delfini, Ciro Menotti e il Marchese De Sade, e, seduto in quel caffè, sornione e bizzarro, Mario Molinari.

Forse, a modo suo, è anche un rimedio, uno di quegli impiastri che i farmacisti facevano mettere ai malati per curare malanni veri e immaginari, come la pazzia geminiana, una patologia effettivamente impossibile da classificare, ma decisamente irresistibile, e per gli abitanti di questa parte di mondo, ineludibile.

Stay Foolish, diceva Steve Jobs. Avesse conosciuto da vicino la pazza folla della Ghirlandina, non avrebbe perso tempo a raccomandarsi.

È il teatro di autoscontri storici, è l’asse viario di una topografia psicogeografica, è teoria e pratica dello gnocco e del tortello fritto, di rendez-vous “con le gambe sotto il tavolo”, è profumo di palude e di luoghi lacustri. È nebbia, se vogliamo, e insieme magone, perché “Modena com’era è anche Modena come continua ad essere” scrive Barbolini, ed è invisibile, anche se c’è.

È un caleidoscopio dotto e a un tempo un po’ lisergico, questo libro, che scruta scrittori, disserta di scritture, e che, con la precisione di un monaco, disegna miniature.

Un modo per scoprire che un fiume divide l’orizzonte modenese in Medioevo e Illuminismo, e che la città non è distesa ma raccolta intorno a una via Emilia che, appena fuori le mura, somiglia a “un vecchio pitone in agonia”.

Che altro c’è? La celeberrima erre di Francesco Guccini, l’humus inconfondibile delle storie di Giuseppe Pederiali, vivificato da spade, sortilegi, fionde e palle di neve, i misteriosi, nonché gaudenti, acquerelli di Giuliano Della Casa, l’interesse per il corpo che si fa letteratura, ricordando, anche accademicamente, Gian Paolo Biasin.

C’è il Delta Del Po, Palazzo Ducale, e FUOCOfuochino, la casa editrice più piccola del mondo, ci sono preziose lezioni su come una storia diventi un intreccio, e, siccome siamo tra la via Emilia e il West, non mancano neppure i cow boy.

Pesci veri e immaginari, Swingin London e Swingin Modena, capelloni e aristocratici, anime e sagome, Bonvi, Edmondo Berselli e una pioggia di batraci.

Non manca il sesso, con un cameo dedicato alla Gina della Spider Rossa e il racconto di come nacque l’antologia della poesia erotica italiana, scritta da Barbolini a quattro mani con Guido Almansi per Longanesi.

C’è l’umanizzazione degli animali, a partire dal cane di Giorgio Giusti, che per l’appunto, si chiamava Uomo, e la mutazione fantastica dei personaggi, nel loro essere drago, vampiro o foionco secondo paragrafo.

C’è la realtà con tutto il suo contraltare, se è vero, come è vero, che “il miglior pesce è un porco”.

É un carnevale, questo libro, così pavironico, mascherato e festoso. Ed è un funerale questo libro, così nostalgico, struggente e mesto.

Dirli tutti, uno per uno, attori e comparse di questa commedia, è impossibile. Ma all’appello, anche se non sembra, qui rispondono anche gli assenti.

Barbolini lo dice col barbiere degli dei, altra voce di questo coro, “nel nostro mestiere è tutta una questione di sfumature”.   

Il volume, pp. 377, ISBN 9788894365139, è in vendita online al prezzo di copertina di € 16.00 sul sito di riferimento, all’indirizzo www.asterionelegge.it