In principio era il buio. Buio e freddo. Non il freddo che fa rabbrividire ma basta un fuoco di bivacco a riscaldare; un freddo proprio da ghiacciaio, che iberna fossili e tracce di vite passate in un’immemore vita minerale, in attesa di un impossibile risveglio. Che fosse impossibile lo sapevo bene. Eppure mi stavo risvegliando. Con il mio arco in legno di tasso e le frecce acuminate che tenevo nella faretra sarei di nuovo andato a caccia di cervi e di stambecchi; con queste mie mani diacce come la morte avrei ancora raccolto bacche tra le forre e i dirupi del Similaun. E nelle lunghe veglie invernali accanto ai fuochi, quando i lupi ululano di lontano dalle foreste grigie, per generazioni e generazioni gli anziani avrebbero narrato la storia del cacciatore che era riuscito a tornare dal regno dei morti.
L’orrore è arrivato subito dopo. Sollevando con immensa fatica il braccio, ho esplorato a tentoni il buio circostante. La mia mano ancora semiassiderata, pesante come il piombo, ha incontrato un ostacolo. Lentamente, per via delle stilettate dolorose che il sangue riprendendo a circolare infliggeva alle mie dita intorpidite, ho esplorato lo spazio che mi circondava mentre dentro di me cresceva l’angoscia. Il mio corpo giaceva in un involucro vellutato eppure duro come il legno. Qualcosa di funereo come una gondola. Qualcosa che non somigliava a una gondola ma a una bara. Anzi: era proprio una bara. La verità si è fatta strada nella mia mente come un bisturi che incide la carne senza anestesia, causandomi un dolore sovrumano, dal quale il mio corpo appena risorto dai ghiacci del Similaun non ha saputo trovare riparo.
Paralizzato dal terrore, ho pregato di morire di nuovo, ma i miei occhi restavano spalancati. Il respiro si è fatto affannoso per un’improvvisa fame d’aria. Sepolto vivo: così sarei finito, dopo l’inutile combattimento di Armageddon contro le schiere immonde delle rane balzate fuori dalle bocche spergiure del dragone, della bestia e del falso profeta. Nemmeno nei miei incubi peggiori mi sarei mai sognato una fine così terribile, prigioniero fino all’ultimo respiro d’un legno che non galleggia ma sprofonda, sotterrandoti con sé nel buio eterno. Con sgomento, con allucinata rassegnazione, ho dovuto ammettere che il Dottor Morte aveva vinto.
Tutto è incominciato in una torpida domenica di dicembre.
Un improvviso leggero capogiro, il primo della mia vita. Impossibile respirare, come se l’aria fosse di piombo. E i miei polmoni, le branchie d’un pesce in agonia. L’ululato dell’ambulanza. «Come si chiama, perdìo, come si chiama?» urla sgarbata l’infermiera volontaria. Sto agonizzando e lei, invece di salvarmi, pensa già a rubricarmi all’anagrafe dei morti. Finalmente riesco a svenire. Mi risveglio in un letto d’ospedale, coperto di tubi e incapace di parlare (…)
La stanza in cui mi trovo ha la smorta tonalità bianco-giallastra d’un uovo covato in batteria, andato a male da un pezzo. Sulla parete di fronte un orologio tondo, con le cifre in numeri romani, segna sempre l’una e 25. Non so neppure se sia notte o giorno. Angoscia improvvisa di essere già crepato: forse le lancette si sono fermate all’ora esatta della mia morte e per me –solo per me– il tempo ha smesso di scorrere. Questo ospedale dei dannati, questo letto di chiodi e di ghiaccio in cui giaccio da più di tremila anni, sarebbero dunque l’aldilà. Ma se davvero sono morto, morto del tutto, perché continuo a pensare?